Uno dei vantaggi legati alla versatilità della professione di architetto scaturisce dalla possibilità di esprimere la creatività progettuale in molti modi e in differenti scale: dal cucchiaio alla città, passando per la casa delle bambole. Nel 2013 venti studi di architettura e design del Regno Unito hanno ideato una interpretazione contemporanea della casa di bambola allo scopo di raccogliere fondi per bambini disabili, sfruttando così l’evento di beneficenza “Dolls’ House Project” per una inedita sperimentazione degli elementi artistici che caratterizzano la cultura britannica. Più recentemente, la mostra “’Small Stories: At Home in a Dollhouse” allestita al National Building Museum di Washington, nel ripercorrere la storia delle abitazioni negli ultimi tre secoli attraverso le celebri case di bambole conservate al Victoria and Albert Museum di Londra, rivolge anche uno sguardo al futuro. Infatti, il percorso espositivo comprende sia le riproduzioni realizzate con estrema cura del dettaglio da abili artigiani sia le visioni proposte da un gruppo di architetti, designer e artisti statunitensi, in cui tecnologico, storico e ludico si mescolano insieme.
Il fenomeno, avviato a partire dal XVII secolo nei paesi nordeuropei, inizialmente affascina nobili e borghesi – tra i collezionisti illustri si annoverano persino sovrani quali lo zar Pietro il Grande e la regina Vittoria – per poi diffondersi nella cultura popolare, dove il compito di raccontare le aspirazioni sociali che prendono vita nello spazio domestico è affidato alla “Casa dei Sogni” in cui dimora la bambola più venduta al mondo: Barbie. La sua prima Dream House, progettata nel 1962 da Ruth Handler, è un piccolo ambiente con arredi minimalisti – letto con comodino, divano, tavolo da colazione e credenza – costruito interamente in cartone in modo da essere piegato e portato in giro come una valigia. Pur non avendo cucina e bagno, la casa di Barbie era ambita da ogni bambina degli anni Sessanta, sebbene solo poche privilegiate fossero in grado di riceverne una per via dell’elevato costo.
Nel corso degli anni l’abitazione diventa sempre più grande e lussuosa, e quando la questione ecologica emerge nell’attività costruttiva, “Barbie architetto” – non è una mera provocazione, bensì una delle innumerevoli versioni commercializzate – decide di progettare una residenza sostenibile. Infatti, nel 2011 i due studenti newyorchesi Ting Li e Maja Parklar vincono il concorso di progettazione bandito dall’American Institute of Architects e dalla Mattel con la proposta “Malibu Barbie Beach House” che, oltre a rappresentare la quintessenza delle case da spiaggia della nota località balneare in California, coniuga estetica, funzionalità e sostenibilità. I numerosi accorgimenti tecnologici adottati – schermature regolabili sulle finestre per ridurre l’apporto solare, pannelli fotovoltaici, tetto verde che riduce l’effetto “isola di calore” e fornisce un maggiore isolamento termico, elettrodomestici a basso consumo, materiali e arredi ecologici – svolgono una funzione educativa, in quanto i progettisti sperano che le bambine e i bambini possano imparare di più sul mestiere di architetto attraverso il gioco, e che le case ecologiche di nuova generazione entrino a pieno titolo nell’immaginario collettivo.
La fascinazione esercitata dal mondo creato attorno a questa bambola si ripercuote anche nella esperienza abitativa degli adulti, come illustrano due esempi: da una parte, l’installazione interattiva “Barbie Dream House Experience”, allestita in via permanente a Sunrise in Florida e in via temporanea nel 2013 a Berlino, con i suoi 2.500 metri quadrati offre ai visitatori una immersione totale e personalizzabile in funzione dei propri desideri, che li isola dal contesto urbano in cui vivono quotidianamente; dall’altra, il colore rosa e la configurazione dei volumi prismatici che definiscono le quattro ville con piscina realizzate dallo studio Moonbalsso nella città coreana di Miryang richiamano alla mente le suggestioni del “Barbie Style”.
Al di là del valore estetico, occorrerebbe fermarsi a riflettere su come la casa di bambola sia una potente metafora sociale. Nell’omonimo testo teatrale scritto nel 1879, il drammaturgo Henrik Ibsen se ne avvale per denunciare la condizione femminile all’interno del matrimonio: la protagonista Nora, rendendosi conto di rappresentare per il marito e per la società semplicemente una bella marionetta che vive appunto in una casa di bambola, decide di abbandonare la famiglia in cerca della sua vera identità. Nella Casa dei Sogni di Barbie, invece, prende forma il nomadismo del XXI secolo; per il saggista Jacques Attali “iper-nomade” è il nuovo individuo destinato a dominare il territorio policentrico del futuro, il rappresentante di una élite per la quale il mondo non è altro che un villaggio, i cui componenti dispongono di più luoghi di residenza. Essi trovano in ogni angolo del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze, plasmate dai modelli dominanti dell’architettura occidentale, per esprimere l’appartenenza identitaria alla società dell’informazione globalizzata, al punto che «a New York, a Las Vegas, in un villaggio svizzero o in un emirato arabo non ci si stupirà di trovare gli stessi autori, che rispondono, da soli o in gruppo, a una domanda omologata» [Christophe Purtois, “Architettura e nomadismo”, 2010]. Già negli anni Settanta lo scrittore Georges Perec nella sua poetica descrizione delle “Specie di spazi” introduce il tema dell’abitare diffuso: «Perché non privilegiare la dispersione? Invece di vivere in un luogo unico, cercando invano di concentrarsi, non si potrebbero avere, sparse dentro Parigi, cinque o sei stanze? Andrei a dormire a Denfert, scriverei a Place Voltaire, ascolterei musica a Place Clichy, farei l’amore alla Poterne des Peupliers, mangerei in Rue de la Tombe-Issoire, leggerei vicino al Parc Monceau, eccetera».
Ecco dunque la vera lezione che ci insegna la Casa dei Sogni: l’architettura è soggetta a un errare senza meta nello spazio e nel tempo, poiché deve soddisfare i bisogni umani elementari di dimorare e spostarsi, prima ancora che di radicamento alla terra. E Barbie raffigura il nomade che alberga in ciascuno di noi: del resto, chi non vorrebbe, come lei, vivere muovendosi tra l’appartamento metropolitano, il palazzetto di tre piani con ascensore, la casa in campagna, lo chalet in montagna e la villa al mare?
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