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CHI NASCE (RO)TONDA… di Emanuele Forzese

Frank Blackmore, Magic Roundabout, Swindon (fonte: wired.com)

Quando l’urbanista Eugène Hénard introdusse la prima rotatoria a Parigi agli inizi del Novecento, non immaginava di certo che un secolo dopo questo sistema di intersezione stradale a raso, nato per moderare e snellire il traffico, sarebbe stato inserito da Ilvo Diamanti nel suo “Sillabario dei tempi tristi” a causa dell’impatto che crea nel paesaggio. Segni anticipatori di un imminente processo di urbanizzazione quando sorgono lungo una strada dritta senza incroci, le rotonde trasformano l’ambiente costruito, ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione, ri-orientano e al contempo dis-orientano, cambiano il modo stesso di guardare il territorio. Variabili per forma, dimensione e materiali, le rotonde si evolvono nel tempo come organismi viventi. A partire da un cerchio tracciato con la vernice sull’asfalto, crescono, diventano più grandi, talvolta manufatti monumentali che ospitano al loro interno giardini, alberi tropicali, fontane o sculture ardite. Fino alla maestosa “rotatoria di rotatorie”, come la Magic Roundabout (“Rotatoria magica”) progettata da Frank Blackmore per la città inglese di Swindon, dove cinque mini-rotonde sono disposte attorno a una sesta mega-rotatoria centrale; il nome deriva da una popolare serie televisiva per bambini, ed in effetti essa è “magica” in quanto consente al traffico di scorrere in entrambi i sensi di marcia intorno all’isola centrale.

Arriola & Fiol Arquitectes, Plaça de les Glories Catalanes, Barcellona (fonte: ara.cat)

Forse la rotatoria ha così tanto successo perché incarna due metafore della società contemporanea. La prima è collegata alla circolazione lungo il suo bordo, come spiega lo stesso Diamanti: nell’epoca in cui spariscono gli spazi per la relazione sociale, si affermano quelli destinati al transito dei veicoli, dove tanto i pedoni quanto i ciclisti sono sprovvisti di ogni diritto di cittadinanza e procedono a proprio rischio e pericolo, «perché la regola delle rotatorie è che occorre dare la precedenza a tutti, prima di affrontarle. Per cui passa prima chi entra per primo. […] Presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario». La società “liquida” di Zygmunt Bauman ha ceduto il posto alla società “rotonda”.

La seconda metafora riguarda invece l’area che circoscrive, quella “isola di cemento” protagonista nell’omonimo romanzo di James Graham Ballard del 1974, in cui l’uomo reso naufrago dalle turbolente acque della tardo-modernità non trova più una patria ove radicarsi, ma esperisce immagini e desideri a lungo latenti, riattivando i percorsi neuronali dell’inconscio. La storia narra le vicissitudini di Robert Maitland, un architetto che, a causa di un incidente stradale, rimane intrappolato suo malgrado dentro un’isola spartitraffico tra le arterie ad alto scorrimento della periferia londinese. Diversamente da Robinson Crusoe – che riproduce sull’isola l’ordine del mondo da cui proviene attraverso l’ottimizzazione delle risorse – e nonostante sia un architetto – sarà un caso se Ballard sceglie proprio questa professione per raccontare il naufragio esistenziale? –, Maitland non si propone di riordinare l’area interstiziale in base a schemi ideali, poiché il suo soggiorno è più improntato all’attraversamento che alla ricostruzione. Divenuto infine “signore” dell’isola e padrone del passaggio che conduce al mondo esterno, egli pianifica l’imminente ritorno alla sua vita borghese – scandita da lavoro, moglie, figlio e amante – senza tuttavia metterlo in atto. Se inizialmente Maitland si percepisce solo «su un pianeta alieno abbandonato dai suoi abitanti, una progenie di costruttori d’autostrade scomparsi molto tempo fa, che gli avevano lasciato in eredità quel deserto di cemento», poco a poco si rende conto che quel territorio prima ignoto si trasforma nella esatta riproduzione della sua mente, al punto che gli spostamenti fisici finiscono per raffigurare un viaggio nel proprio passato: «Identificando l’isola con se stesso, contemplò le auto nello spiazzo dello sfasciacarrozze, il recinto di rete metallica e il cassone di cemento alle sue spalle. […] Parlò ad alta voce come un prete che celebri l’eucaristia del proprio corpo. “Io sono l’isola”».

Efficace rappresentazione topografica delle due metafore sociali – il gorgo perimetrale e l’isola

Vista aerea di Plaça de Les Glories Catalanes in fase di trasformazione (fonte: toposmagazine.com)

centrale – è il progetto di Plaça de les Glories Catalanes, un grande spazio di intersezione tra due assi diagonali, previsto dal piano di ampliamento di Barcellona redatto da Idelfonso Cerdà nel 1859 con l’intento di creare una nuova centralità urbana. Rimasto per molto tempo uno spazio pubblico incompleto e un nodo irrisolto della mobilità, nel 1989 ottiene finalmente una sistemazione architettonica grazie allo studio Arriola & Fiol Arquitectes, che utilizza proprio il traffico come materiale di progetto. Infatti, è la geometria dei tracciati viari a definire forma e dimensioni dell’intervento: riprendendo la configurazione astronomica di un buco nero, nel quale tutto converge, la sovrapposizione di due anelli ovali organizza la circolazione in due livelli distinti – veloce e di attraversamento in quello superiore, lenta e di accesso locale in quello inferiore – e consente di liberare un grande spazio centrale che assolve la funzione di piazza urbana.

Ma, sebbene continuino a riprodursi dovunque e senza sosta, nemmeno le rotatorie durano per sempre. Nel 2014 viene indetto un concorso per ridisegnare totalmente Plaça de les Glories Catalanes, e la proposta vincitrice di Agence Ter e Ana Coello sostituisce il doppio anello di circolazione con un piano or

Agence Ter + Ana Coello, Canopia Urbana, Barcellona (fonte: anacoello.es)

izzontale continuo di 15 ettari su cui è ubicata una grande “canopia urbana” – in biologia la canopia si riferisce alla volta o strato superiore di una foresta, formata dalle chiome degli alberi – che collega gli assi civici e i quartieri circostanti, favorisce sia gli scambi ecologici necessari alla bio-diversità sia la regolazione climatica, e garantisce la massima flessibilità nell’uso dello spazio pubblico.

Il caso della città catalana costituisce una eccezione alla tendenza in atto. Numerose rotatorie continueranno a sorgere nel nostro territorio, perlomeno finché non riusciremo a cogliere in pieno la dimensione poetica dello spazio rotondo, seguendo il percorso tracciato da Gaston Bachelard. Nella sua “fenomenologia del rotondo”, il filosofo francese considera la rotondità uno strumento di raccoglimento e di affermazione della nostra intima essenza: «vissuto infatti dall’interno, senza esteriorità, l’essere non potrebbe essere che rotondo». Pertanto, la prossima volta che vedremo una rotatoria, soffermiamoci un attimo a riflettere sull’idea che «il mondo è rotondo intorno all’essere rotondo».

Emanuele Forzese

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