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IL CONFESSIONALE DI NARCISO – di Eamnuele Forzese

Capanna di Martin Heidegger a Todtnauberg (fonte: welt.de)

Quando si parla di “emergenza abitativa”, in genere si fa riferimento alla difficoltà di accedere ad una casa. Nell’ultimo decennio le indagini condotte da Cittalia (Fondazione ANCI Ricerche) hanno evidenziato due forme di disagio residenziale: la prima comprende coloro che non hanno i mezzi per vivere in uno spazio dignitoso e sicuro, la seconda include una ampia “fascia grigia” di persone che, pur potendo contare su una condizione di relativa stabilità, non riescono a sostenere l’attuale mercato immobiliare. Emergono così nuove domande abitative legate a varie situazioni sociali: persone senzatetto o ricoverate in alloggi di fortuna; famiglie in povertà relativa e assoluta; nuclei familiari vulnerabili a seguito di profondi cambiamenti (quali denatalità, allungamento dell’aspettativa di vita, instabilità nei rapporti di coppia); migranti in cerca di inclusione; precari con poche garanzie da offrire per la compravendita; lavoratori in mobilità territoriale. A questi si aggiungono anche gli sfollati in seguito a catastrofi più o meno naturali.

In quella che Martin Heidegger definisce “nostra epoca preoccupante”, l’urgenza dei suddetti temi è tale da mettere in secondo piano il destino dell’abitare, argomento con cui egli stesso nel 1951 conclude il saggio “Bauen Wohnen Denken”: «Per quanto dura e penosa, per quanto grave e pericolosa sia la scarsità di abitazioni, l’autentica crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. […] La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare».

La pratica architettonica cerca di risolvere le varie emergenze offrendo spazi in cui innanzitutto si deve poter abitare, ma proprio in questo risiede un grande equivoco: cosa vuol dire “abitabile”?

Torre (e successivi ampliamenti) di Carl Gustav Jung a Bollingen (fonte: jungitalia.it)

La normativa vigente assume come riferimento le caratteristiche fisiologiche dell’essere umano, legando i concetti di “abilità” e “agibilità” ad attestazioni sulla sussistenza delle condizioni minime di sicurezza, igiene, protezione dalle intemperie, temperatura interna, qualità dell’aria, luminosità, acustica, risparmio energetico, eccetera. Tuttavia, lo storico dell’urbanistica Vittorio Magnago Lampugnani ci avvisa che tutto ciò è necessario ma non sufficiente: l’architettura è innanzitutto una prestazione di servizi abitativi molteplici e multidimensionali, che non derivano soltanto dalle necessità biologiche, bensì sono strettamente connesse con le pratiche e le culture di determinati gruppi sociali in determinati luoghi geografici e in determinati periodi storici. Non potendo misurare analiticamente tale complessità né tentare di descriverla in modo schematico, occorre soddisfare tanto le esigenze materiali quanto quelle immateriali (cognitive ed emotive). Scrive infatti Alberto Savinio nel racconto “Omero Barchetta” del 1943: «Per la felicità del corpo c’è la casa, i mobili, gli apparecchi riscaldanti e quelli refrigeranti, la luce artificiale; ma che cosa ha inventato l’uomo, che cosa ha fabbricato per custodire, per difendere la sua felicità mentale?»

Nel campo degli studi psicologici la casa rappresenta il perimetro simbolico in cui si esprime la vita interiore, la cifra psichica della nostra individualità: al suo interno siamo (o dovremmo essere) noi stessi, privi della maschera sociale con cui ci rapportiamo all’esterno. Nello spazio domestico albergano tanto l’Io (centro della coscienza) quanto il Sé (centro di tutta la personalità, conscia e inconscia), pertanto, affinché possiamo cogliere luci e ombre, desideri e paure, potenzialità e complessi che contraddistinguono la nostra psiche, ci occorre un ambiente adatto alla meditazione e alla comprensione del senso della vita.

Confessionale della Casa del Grande Fratello (fonte: sentio.it).

Nel 1922 Heidegger adibisce a pensatoio una delle quattro stanze della capanna che edifica a quasi 1200 metri di altitudine nelle vicinanze di Todnauberg, un piccolo paese della Foresta Nera: un semplice tavolo di fronte alla finestra diviene per il filosofo tedesco il posto dove raccogliersi a lavorare mantenendo un contatto con la natura, un luogo che lo ispira nella scrittura delle sue opere più significative. L’anno successivo Carl Gustav Jung costruisce una dimora a Bollingen come personale angolo preposto all’ascolto del Sé, la cui forma circolare con il focolare al centro possiede una forte valenza simbolica: «Fin da principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò. Mi dava la sensazione di essere rinato nella pietra. Mi appariva come un’attuazione di ciò che prima avevo solo intuito e una rappresentazione dell’individuazione, un monumento aere perennius. Questo ha avuto un effetto benefico su di me, come una accettazione di ciò che sono» [“Ricordi, sogni, riflessioni”, 1961].

Wheel House del Circo Acrojou (fonte: inhabitat.com)

Nel 1999 l’angolo del Sé viene rimpiazzato dal confessionale del “Grande Fratello”: l’omonimo format televisivo, ideato dal produttore John de Mol, prevede che i partecipanti, perlopiù sconosciuti tra loro, condividano per alcuni mesi la vita quotidiana in una lussuosa dimora dotata di telecamere che li riprende 24 ore su 24. Ciascun concorrente, all’insaputa degli altri, può chiudersi in un ambiente insonorizzato per confessare – più al pubblico che a sé stesso – i propri pensieri, ricordi e sentimenti. Chiusa al contesto più prossimo – quello urbano – ma aperta al contesto più remoto – quello globale, raggiungibile grazie alla diffusione mediatica – tale dimora testimonia la diffusione di un disordine narcisistico: la casa contemporanea è, per antonomasia, il luogo dove l’Io mette in scena le proprie ambizioni a discapito dei desideri più autentici e personali, spesso relegati nei meandri dell’inconscio. Se la scarsa consapevolezza della propria individualità si traduce in ricerca dell’omologazione, allora «il progetto della propria abitazione finirà per essere glamour, magari, ma inevitabilmente freddo, astratto, convenzionale ed anaffettivo» [Flaminia Nucci, in: Claudio Sangiorgi, “La casa preoccupata”, 2015].

In definitiva, “abitabile” è quella costruzione accessibile economicamente da tutte le categorie sociali e capace di accogliere il significato simbolico più profondo dell’ambiente domestico. Una interessante sperimentazione che supera gli orizzonti tendenzialmente convenzionali di molta architettura corrente proviene dall’ambito artistico: la “Wheel House” del Circo Acrojou è un modulo circolare costituito da un anello dal diametro di due metri e profondo solo ottanta centimetri, che una coppia di acrobati riesce a far avanzare lungo la strada. Forse in fondo al Narciso che è in ciascuno di noi serve molto meno di una capanna o di una torre: basta guardare due individui che si muovono dentro una ruota per tornare a riflettere sul senso dell’abitare.

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