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LA MIA CASA E ALTRI EDIFICI. TRE DOMANDE SU ARCHITETTURA E SOCIETÀ di Emanuele Forzese

SOU – Scuola di Architettura per bambini a Favara (fonte: farm-culturalpark.com).

Nel romanzo autobiografico “La mia famiglia e altri animali” del 1956, il naturalista Gerald Durrell descrive con dovizia di particolari la ricca fauna osservata nei cinque anni di permanenza sull’isola di Corfù; cosa accadrebbe se adottassimo il medesimo misto di curiosità e incanto del suo resoconto per osservare le costruzioni che utilizziamo nella nostra quotidianità?

Nel saggio “Sociologia dell’Architettura”, il sociologo Federico Boni e l’architetto Fabio Poggi applicano l’approccio degli studi sociali al fare architettura come professione, all’edificio come oggetto culturale che attraversa numerosi aspetti della società, ai rituali degli utenti negli spazi pensati dagli architetti. Emergono in tal modo tre interrogativi, che sarebbe riduttivo riservare esclusivamente agli studiosi di architettura e di sociologia, dal momento che riguardano tutti gli individui.

Domanda 1: soltanto architetti e ingegneri devono studiare l’architettura?

Quando si parla di formazione in ambito architettonico, l’attenzione si concentra sulla presunta differenza tra i percorsi formativi di architetti e ingegneri, nonché sulla migliore combinazione di competenze artistiche e professionali, mentre si discute poco sul generale disinteresse per i fatti architettonici, nonostante il ruolo attivo che ogni persona svolge nella definizione dell’ambiente costruito. Infatti, l’architettura è prodotta sia dagli architetti (tramite il progetto) sia dagli abitanti (tramite l’uso). Yona Friedman, ritenendo che all’utente in quanto destinatario spetti il potere decisionale nella costruzione degli edifici, definisce l’architettura una scienza “insegnabile” già a partire dalle scuole elementari. In tal modo, fruitori e progettisti avrebbero un livello basilare di conoscenza che consentirebbe loro di dialogare ed intendersi sulle regole di configurazione dello spazio architettonico, mentre solo i secondi approfondirebbero gli studi a livello universitario.

Applicazione recente di tale idea è la SOU – Scuola di Architettura per bambini, creata all’interno del Farm Cultural Park a Favara. Attraverso il coinvolgimento di bambini, ragazzi e genitori in attività eterogenee – urbanistica, architettura, ambiente, costruzione di comunità, arte, design, agricoltura urbana ed educazione alimentare – la scuola si propone sia di stimolare la riflessione, la progettazione e l’azione sia di promuovere i valori di accoglienza, partecipazione e solidarietà, allo scopo di migliorare la società investendo sulle future generazioni.

 

Domanda 2: come ci plasmano le case e gli altri edifici che frequentiamo?

La socio-semiotica ci insegna a leggere l’insieme costituito da spazio, oggetti e uomini alla stregua di un sistema linguistico produttore di senso, e ad analizzare i riti quotidiani che si svolgono al suo interno. Una delle conseguenze immediatamente visibili è che l’architettura contribuisce alla generazione di appartenenze identitarie a livello locale e nazionale, persino sovranazionale: non a caso l’Unione Europea utilizza alcuni elementi architettonici come simboli dell’unità dei paesi membri, in particolare raffigurando nelle proprie banconote ponti (simbolo di unione e comunicazione), porte e finestre (emblema di apertura e accesso).

Fronte e retro di una banconota da 20 Euro (fonte: depositphotos.com).

Meno evidente è nella percezione comune l’edificio come strumento per indagare simboli e significati della nostra cultura. Distratti – o forse sommersi – dalla quantità e complessità di informazioni che affollano la nostra esistenza, tendiamo a sottovalutare come molti spazi architettonici siano in realtà potenti dispositivi di controllo e di esclusione sociale. Siamo forse pienamente consapevoli che i luoghi della formazione (scuole), cura del corpo (ospedali, terme), ricreazione (locali e club), conoscenza (librerie, musei), produzione (fabbriche) e scambio (mercati) sono in realtà strumenti della bio-politica, ovvero di una tecnica di potere finalizzata a disciplinare e sorvegliare gli individui? Secondo Michel Foucault occorrerebbe, scrivere – e studiare – la storia degli spazi come “storia dei poteri”, dalle grandi strategie della geopolitica fino alle piccole tattiche degli habitat istituzionali, quali l’aula scolastica o la corsia ospedaliera. E chi pensa che soltanto campi di concentramento, centri di permanenza temporanea e campi nomadi nelle periferie urbane siano esempi di “architettura dell’esclusione”, come definirebbe le panchine progettate appositamente scomode per impedire ai senza tetto di dormirci sopra, le barriere fisiche e visive per filtrare gli indesiderabili nei centri commerciali, i dispositivi di sicurezza che rendono le nostre abitazioni sempre più simili a prigioni e fortezze?

 

Domanda 3: fino a che punto i media consentono una fruizione “reale” dell’architettura?

Municipio di Scicli, trasformato in Commissariato della città immaginaria di Vigata nella fiction “Il commissario Montalbano” (fonte: repubblica.it).

La nascita dei mezzi di comunicazione di massa ha introdotto una nuova modalità per esperire l’architettura: conosciamo più edifici attraverso le rappresentazioni dei media (libri, riviste, film, mostre, documentari, programmi televisivi, eccetera) che non mediante l’esperienza dell’accesso o della visione diretta, trasformandoci pertanto da utenti a spettatori. Tuttavia, la conoscenza mediatica dell’architettura non sempre ci restituisce una raffigurazione realistica, in quanto interviene spesso una componente creativa mediante cui cinema e televisione mostrano dei luoghi che sono in realtà frutto del montaggio di edifici o spazi disparati.

Ad esempio, la serie televisiva “Il Commissario Montalbano”, tratta dai romanzi di Andrea Camilleri, mette in scena un doppio inganno nel raffigurare Vigata, il paese immaginario dove vive il protagonista:  innanzitutto viene caratterizzato mediante l’architettura barocca tipica della Val di Noto, sebbene Camilleri lo avesse immaginato come trasposizione della sua città natale Porto Empedocle, in provincia di Agrigento; in secondo luogo, le riprese televisive tentano di ricreare una identità urbana che non esiste, mettendo insieme vari centri della Sicilia Sud-Orientale (Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Santa Croce Camerina, Noto ed altri). Anche i singoli edifici ingannano: il Palazzo Municipale di Scicli nella finzione televisiva funge da Commissariato di Vigata, mentre l’ufficio del Sindaco viene adoperato per simulare la stanza del Questore, che in teoria dovrebbe trovarsi presso un’altra sede. Tutte evidenze di cui ci accorgiamo con stupore quando i vari tour organizzati nei “luoghi di Montalbano” ci trasformano da spettatori in turisti, portandoci a sovrapporre la nostra immaginazione sia al significato degli edifici nella loro esistenza pre-mediatica sia al valore narrativo che assumono nella finzione, e quindi ad operare una riconfigurazione del confine tra dimensione reale e mediatica dei luoghi visitati.

Filo conduttore delle tre questioni è l’idea dello spazio non più come mero sfondo dell’azione sociale, poiché esercita un ruolo socialmente interattivo e propulsivo: attraverso la fruizione, di volta in volta organizziamo e attribuiamo significati ai luoghi della nostra vita. Di conseguenza, noi siamo gli edifici che abitiamo.

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