Volevo fare l'architetto Il mio primo libro

12 – Distopia architetturale (parte2)

Un nuovo approccio alla progettazione urbana, fa assumere ai bambini un ruolo determinante, in quanto portatori di idee, esperienze ed esigenze diverse, fino ad oggi mai ascoltate, potenzialmente molto creative e garanti di una migliore qualità della vita anche per gli adulti. In tale processo diventa fondamentale il rapporto periodico fra bambini, cittadini, associazioni e Amministrazione al fine di realizzare un progetto davvero condiviso. Il coinvolgimento delle scuole è quindi di fondamentale importanza! Il vero problema è che in Italia non esiste una legge nazionale che garantisca l’attuazione di questi obiettivi e che obblighi a perseguire uno sviluppo sostenibile delle città. Il D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), che ha sostituito la legge Merloni del 1994 (legge quadro in materia di lavori pubblici) non contiene nessun riferimento alla progettazione partecipata, né vincola le istituzioni ad uno sviluppo sostenibile. Oggi tutte le pratiche urbanistiche dipendono da leggi regionali e solo la Toscana, l’Umbria e l’Emilia Romagna hanno redatto una legge ad hoc  che riguarda la progettazione partecipata.

Esistono però due direttive europee:
• la 42/2001, legata alla sostenibilità e che impone a piani e programmi di un certo rilievo territoriale la procedura della VAS (Valutazione Ambientale Strategica), prevedendo il coinvolgimento delle comunità locali nell’analisi dello scenario;
• e la 35/2003 che sancisce la necessità di attivare processi di partecipazione territoriale. Queste direttive non sono però prescrittive, ma sono gli Stati membri a scegliere se adottarle o meno.

Ad oggi sono molti gli esempi di urbanistica partecipata in Italia. Secondo i dati dell’ INU, sono circa 200 i casi di pianificazione partecipata segnalati alla commissione volontaria; si può affermare con certezza, quindi, che siamo nell’ ordine di grandezza di qualche centinaio di episodi da Milano a Torino, Genova, Potenza, Bologna, Firenze, Roma e tanti altri comuni piccoli e grandi. Dove si può parlare di “consuetudine” e “maturità” nella pratica della partecipazione è la Gran Bretagna; qui, infatti, è un dato acquisito da quarant’anni. Nick Wates, scrittore, ricercatore, professionista e consulente con un’esperienza di più di 25 anni sul campo, descrive, come esempio, la realizzazione del Piano di Sviluppo Locale per Bexhill. Anche in Francia, grazie ad una normativa sul paesaggio, la partecipazione dei cittadini viene promossa rispetto alla redazione di vincoli ambientali, trasformazioni e gestioni cooperative. La Germania, come spesso accade, anche in questo caso riesce ad avere un posto d’onore nell’albo delle nazioni che attuano urbanistica partecipata grazie alle numerose esperienze riscontrabili sul territorio. Tra i diversi esempi ricordiamo la Stadterneuerung: processo di rigenerazione urbana che sta coinvolgendo Berlino da circa 15 anni.

   “In Italia l’opposizione alla partecipazione è stata indubbiamente dura, ma questo è stato anche facilitato dalle posizioni deboli e dogmatiche di quelli che proponevano la partecipazione come processo meccanico e automatico secondo il quale basta andare dalla gente, chiederle quali sono i suoi bisogni e poi trascrivere le risposte in progetti grigi il più possibile. La partecipazione è molto più di così: si chiede, si dialoga, ma si “legge” anche quello che la vita quotidiana e il tempo hanno trascritto nello spazio fisico della città e del territorio, si “progetta in modo tentativo” per svelare le situazioni e aprire nuove vie alla loro trasformazione. Ogni vera storia di partecipazione è di un processo di grande impegno e fatica, sempre diverso e il più delle volte lungo ed eventualmente senza fine. La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste. È difficile che il dialogo si apra subito a una fluente e efficace comunicazione. Ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il processo diventa vigoroso, spinge all’invenzione, innesca uno scambio di idee che viene continuamente alimentato dall’interazione dei vari modi diversi di percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. […] Per questo non esistono ricette per la partecipazione. Se cambiano i partecipanti e le ragioni per cui si sono incontrati, cambia la partecipazione: bisogna inventarla e esperirla ogni volta da capo” (G. De Carlo, 2002).

In Italia è diventato tutto estremamente difficile e complesso, forse lo è sempre stato, ma col passare degli anni mi rendo conto che il groviglio burocratico e la sistematica ignoranza generale ha prodotto gravi e perenni danni alla società e alla realtà che ci circonda. Quando ero giovane volevo anche io essere un “archistar” con incarichi milionari e progettazioni senza limiti, crescendo mi sono reso conto invece che voglio essere un “antistar”, l’architettura è arte, tecnica, sociologia, politica, psicologia, è estetica e funzionalità, è raziocinio e follia. L’architettura non è un capriccio, non è scultura non è qualcosa di autoreferenziale. L’architettura deve saper leggere i linguaggi e le vocazioni di uno specifico territorio, acquisirne pregi e difetti e marcarne il suo “Genius loci”. All’estrema teoria conservatoristica bisogna opporre una tendenziale visione contemporanea della vita e del modo di vivere che caratterizza le nostre città. Non tutto va per forza di cose conservato e cristallizzato, così come non tutto va obbligatoriamente sventrato. “In medio stat virtus” dicevano i latini, e il giusto compromesso tra antico e contemporaneo, tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, può essere la strada giusta per recuperare i nostri centri storici e non solo. Le periferie oggi sono, nonostante il divario “generazionale” con il quale sono stati progettati ed edificati, altamente degradate tanto quanto i centri storici ed anche gli esempi più “innovativi” dati in mano ad architetti non sono riusciti nel loro intento. Penso ad esempio al quartiere ZEN (zona espansione nord) di Palermo oggi denominato San Filippo Neri. Il quartiere, interamente costituito da fabbricati di edilizia popolare, si suddivide in due aree, con diverse caratteristiche costruttive, comunemente definite come “Zen 1” e “Zen 2”. Lo Zen 2, sorge a partire dal 1969 per opera dell’IACP palermitano su progetto dell’architetto Vittorio Gregotti. Dal progetto di concorso alla realizzazione, lo Zen 2 ha subito delle varianti che hanno modificato la morfologia complessiva del quartiere.  Dopo il 1980 il gruppo vincitore del concorso non fu in grado di esercitare, perché del tutto estromesso, alcun controllo sulle fasi di progettazione e di esecuzione né tanto meno poté influenzare le scelte politico-amministrative che lasciarono lo ZEN 2 privo di servizi.  Il quartiere è specchio della pesante situazione politica e sociale, con alti tassi di dispersione scolastica e microcriminalità. Vittorio Gregotti in un’intervista dichiara:  “Lo Zen lo rifarei uguale al progetto. Lì il solo errore è stato non aver capito quale formidabile potere avesse la mafia. È un fallimento da un punto di vista politico e sociale, ma non architettonico”.  Questo dimostra come l’architettura da sola, anche se di ottima qualità, non possa essere propulsiva sia da un punto di vista prettamente urbanistico, sia da un punto di vista sociologico. Ferdinando Fava antropologo, ricercatore ed insegnante presso l’Università degli studi di Padova scrive: “Proprio attorno al solo spazio modernista progettato da Vittorio Gregotti e al successivo spazio costruito si sono concentrate, in questi anni nella sfera pubblica, le analisi urbanistiche e i progetti pubblici d’intervento, ma è sullo spazio sociale, sul modo d’abitare dei residenti (le loro pratiche sociali) che si è costituita ed accanita la stigmatizzazione dei media e dei dispositivi socio-istituzionali”, e ancora: “La rigida griglia ortogonale, priva d’ogni decoro, non offre spazi alla socialità, né mete alla percorrenza, che non siano gli interni delle insulae. Sicché l’insieme, se contiene una ricca articolazione di spazi d’abitazione, di fatto è del tutto privo di spazio urbano che per essere tale deve pure essere significativo» (Quartarone 2008)”.

Carlo Gibiino

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